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Storia del calcio- il primo scudetto

il primo scudetto



Di stanza al porto, i fondatori si dilettano con l'attività ludica che tanto ricorda loro la madrepatria; fino a quando capiscono che anche in Italia quello sport può diventare una cosa seria come lo è oltremanica. Nel 1897, quindi, scrivono nel loro statuto la regola che ammette l'ingresso di soci italiani, così rafforzando una compagine che già mostrava di giocare un buon calcio. E nel 1898, esattamente l'8 maggio, vincono il primo campionato italiano. Nulla a che vedere con lo spossante - non solo per i giocatori, ma anche per chi lo segue - torneo dei giorni nostri: il primo scudetto, infatti, viene cucito sulle maglie del Genoa al termine di una sola giornata di partite che coinvolgono quattro squadre.


Il Genoa campione d'Italia 1898

Oltre ai campioni, vi partecipano la già citata Internazionale Torino, il Football Club Torinese e la Ginnastica Torino. I match si giocano, ça va sans dire, all'ombra della Mole, precisamente nella Piazza d'Armi e con quella vittoria il Genoa costituisce la prima, gloriosa eccezione alla regola del fattore campo (non è da tutti giocare contro tre squadre cittadine e imporsi sempre). Per quanto rudimentale e pionieristico, quel campionato segna comunque un primo tentativo di unificazione sportiva della penisola.
Fino ad allora, infatti, ogni team giocava tornei cittadini (oltre Genova e Torino, se ne disputavano anche a Milano). Dal 1898 tuttavia, grazie anche alla spinta propagandistica della Federazione Italiana del Football - antenata dell'attuale Federazione Italiana Gioco Calcio, meglio conosciuta come Figc - il campionato prende piede. Nascono nuove società che faranno la storia del calcio italiano: la Juventus (1897), il Milan (1899), la Lazio (1900), e tutte partecipano ad un torneo che cresce sempre più e che vede dominare su tutte le squadre il Genoa, vincitore di sei delle prime sette edizioni (l'unico intermezzo è del Milan nel 1901).
Il football, dunque, è realtà consolidata anche in Italia. Aumentano le giornate di campionato, e nell'autunno del 1909 si inaugura il primo torneo a cavallo di due stagioni (lo vincerà nel maggio 1910 l'Internazionale, da intendersi però come Inter). Fino alla Grande Guerra, ad ogni modo, il calcio conserva, dietro un'organizzazione che si fa sempre più capillare, caratteri quasi dilettanteschi. Non mancano, tuttavia, nomi di una certa importanza. Tra tutti Virgilio Fossati, capitano dell'Inter e della Nazionale (della quale parleremo oltre), che muore in trincea sul Carso. Né mancano personaggi da romanzo picaresco, qual è stato Franco Bontadini.
Anch'egli giocatore dell'Inter (ala destra), occulta una laurea in medicina per poter combattere da soldato semplice, e non da ufficiale, nel battaglione Val Cismon del VII Alpini. Tornato a casa sano e salvo, molti anni dopo si uccide, cinquantenne, in seguito a una delusione d'amore. Il vero personaggio del calcio nostrano, tuttavia, arriva con l'avvento del fascismo. Si chiama Leandro Arpinati, podestà di Bologna, presidente della Federazione calcistica dal 1926 al 1932. Uomo di temperamento sanguigno, è squadrista fedele al duce pur riuscendo a mantenere una certa indipendenza e una salutare distanza dai gerarchetti che ne contestano le iniziative. In particolare, quella di aver voluto accanto a sé come segretario tale Giuseppe Zanetti, che l'ambiente vicino a Mussolini reputava inidoneo in quanto non iscritto al Pnf (Partito Nazionale Fascista) ma che Arpinati riesce comunque a imporre sostenendo di aver bisogno, come collaboratore, di un galantuomo competente e non di un fascista.
Sotto il "duomvirato" Arpinati-Zanetti il calcio italiano conosce due innovazioni di notevole portata. La prima è l'introduzione del girone unico, denominato "all'italiana" (definizione tuttora in uso in campo internazionale). Niente più spareggi né finali, ma partite organizzate secondo un calendario che coinvolge diciotto squadre di tutta la penisola e premia quella che alla fine totalizza più punti. La prima edizione si tiene nel 1929-30, e la vince l'Inter (che nel frattempo, in ossequio al nazionalismo del regime, fa precedere il proprio nome da un altro, Ambrosiana).
Il girone unico esprime compiutamente l'ideologia accentratrice del regime: "era lo sbocco logico - ha scritto Gian Paolo Ormezzano, giornalista e storico del calcio - di una ramificazione degli interessi per il calcio in tutt'Italia e della necessità di ricondurre questa ramificazione a una manifestazione centrale, disputata senza troppe cineserie di formula". La seconda innovazione concerne gli "oriundi", i figli di italiani emigrati in Sud America - dove, grazie ai fenomeni migratori, il calcio attecchisce suscitando le febbrili passioni tipiche dei latinoamericani - che si fanno strada nelle squadre argentine e uruguayane.
Il regime non vede di buon occhio l'interesse delle società italiane mostrano per questi stranieri, che subito le autorità politiche si affrettano a ribattezzare "rimpatriati". La loro classe, il loro modo di giocare è tuttavia grandioso, misto di tecnica e di quella fantasia che è elemento genetico di tutti i calciatori che provengono dalle sponde sudamericane. Le società scatenano quindi una caccia allo straniero (in senso buono, ovviamente) non dissimile da quella, frenetica, che contagia i presidenti delle società di oggi. Ma il regime impone dei limiti: non più di due oriundi per squadra. Nella difesa dei valori nazionalistici Arpinati è il più ferreo, tanto che si oppone con veemenza all'ingresso di stranieri in Nazionale.
Le massime autorità, però, fiutano vento di successi, molto più facili da raggiungere impiegando i talenti sudamericani, e ne ammettono l'impiego tra gli "azzurri" malgrado le proteste delle Federazioni argentine e uruguayane, che si vedono saccheggiare le riserve di campioni. Veniamo, quindi, a parlare di Nazionale. Il debutto di una prima squadra che riunisse i migliori calciatori italiani risale al 15 maggio 1910, in una partita disputata contro la Francia all'Arena di Milano. È un successo clamoroso: 6 a 2 in favore dell'Italia, in casacca bianca.
La divisa costituita da maglia azzurra e bermuda bianchi (in onore ai colori dei Savoia) verrà infatti adottata nel 1911, in una partita contro l'Ungheria. E sempre l'Ungheria è la squadra che affronta la nostra nazionale nella sua seconda partita, che si risolve in una "Caporetto" calcistica: 6 a 1 per i magiari, mossi - si dice - da una irresistibile furia patriottica dovuta alla libertà di impiegare in campo calcistico il nome "Ungheria" e di poter quindi staccarsi, almeno sotto il profilo sportivo, dall'egemonia asburgica (a rigor di logica politica, gli ungheresi avrebbero dovuto militare nella nazionale austriaca).
Al di là dei primi incontri e delle vicende sul campo, parlare dei primi anni della Nazionale significa parlare soprattutto di un uomo, Vittorio Pozzo. Ne diventa l'allenatore - anzi, commissario unico - nel 1924, in occasione delle Olimpiadi parigine. "Pozzo aveva del calcio un concetto austero e da buon ufficiale degli alpini concepiva la squadra come un plotone che doveva obbedire ai suo ordini - ha scritto di lui Indro Montanelli - . Era anche giornalista. Ma a noi colleghi dava del lei, un po' per alterigia tutta piemontese, un po' perché affrontava la sua missione con piglio sacerdotale.
Parlare con lui di calcio era come confrontarsi sulla Bibbia col cardinal Martini. Lo ricordo a Belgrado, sul finire degli anni Trenta, ospite del nostro ambasciatore. Una semplice visita di cortesia, alla vigilia di una partita con la Jugoslavia. Eppure Pozzo riuscì a presentarla come un'occasione storica e lasciò intendere che dall'esito di quella sfida sarebbero dipese anche le future relazioni diplomatiche tra i due paesi". Un uomo, comunque, che saprà bilanciare una concezione militaresca del calcio con la capacità di far della sua squadra una famiglia, portandola a vincere due campionati mondiali consecutivi, nel 1934 e 1938.

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